2012
CATTIVISSIMI Racconti alle origini del neo-noir italiano
Stampa Alternativa

Nel 2012 Stampa Alternativa ripubblica, a cura di Fabio Giovannini e Antonio Tentori, con una diversa copertina e formato, i testi di un’antologia molto particolare, che era uscita nel 1994 per la serie dei Cofanetti Millelire , con il titolo di “Noir – Deliziosi raccontini col morto” , e la confezione che ricordava – molto da vicino , al punto di provocare una denuncia da parte della Perugina – la scatola dei cioccolatini “Baci” .

 

 

Tiziana Colusso    FORMALDEIDE (O DELLA CONSERVAZIONE)

Nota dell’autrice, per la nuova edizione del 2021.

Questo testo è del 1994, ed è stato pubblicato nella prima edizione del cofanetto “Neo Noir” di Stampa Alternativa nel 1995. Dopo diciassette anni, non oso cambiare nulla in questo racconto intriso di  emozioni ancestrali e ancora per me perturbanti, nell’oscillazione tra materia vivente e materia inerte.  Soltanto il finale  mi si sdoppia naturalmente sotto i tasti del computer. Man mano che gli anni passano, si ha sempre meno voglia di darla vinta alla morte, cosa che nell’abbondanza di vita della giovinezza si fa con leggerezza spaccona. Arrivata al momento della visita notturna di Lisetta nel laboratorio de marito impagliatore,  mi accorgo che nell’ultima riga la parola crudeltà si trasforma nella parola compassione. E tutto cambia. Questa parola porta nuove parole nelle righe successive e nuovi gesti. (t.c)

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Da undici anni Elsa vive all’estrema punta nord dell’isola, in una casa di pietra che sembra intagliata nella cupa roccia vulcanica del promontorio eroso dalle onde che ad ogni stagione battono e ribattono come a piegare quella parete rocciosa emersa improvvisa, con il tuono di un’esplosione sotterranea, a spezzare il ritmo millenario del mare.

Aveva diciotto anni appena compiuti quando il suo anziano marito era venuto a prelevarla a casa del padre – al quale era  legato da  complicati rapporti di affari che alla mente astratta della fanciulla apparivano un incomprensibile teatro di ombre – e l’aveva portata a vivere su quell’isola non lontana dalla città costiera in cui era cresciuta. Molte volte, da bambina, scendendo dai vicoli del suo quartiere verso i viali spaziosi e aperti del lungomare, Elsa aveva guardato il profilo frastagliato ed erto dell’isola che nei giorni di bel tempo si sollevava  dal fondo dell’orizzonte, fantasticando che laggiù, come in un pianeta inesplorato, vivesse una razza diversa e misteriosa, esseri altissimi e sottili come giunchi, forgiati dal vento marino, scuri come le rocce vulcaniche di cui era fatta l’isola, ma con  sguardi chiarissimi e  affilati, capaci di penetrare le nebbie salmastre che avvolgevano d’inverno  l’arcipelago.

Discesa dal traghetto nel porticciolo polveroso, giovane sposa con un paio di scarpe scomode comprate per l’occasione, aveva invece scoperto che i volti degli isolani non erano poi così diversi da quelli dei commercianti e dei rigattieri che affollavano il quartiere umido e scuro in cui era nata. Persino l’accento era uguale, un sottofondo raschiato che faceva sembrare ogni frase uno sputo.

Il marito di Elsa è in effetti alto come gli isolani delle sue immaginazioni infantili, ma secco e curvo come una pergamena troppo stagionata. Elsa è sicura che anche nella sua lontana giovinezza, perfino in culla, doveva avere lo stesso aspetto ruvido e accartocciato. Trascorre le giornate, fin dall’alba,  nel suo laboratorio di impagliatore, al piano terra della casa, circondato dai suoi strumenti e dall’odore acuto della formaldeide, ed esce all’aperto soltanto con il calar del sole, come se temesse che la sua pelle di pergamena possa sbriciolarsi sotto l’effetto della luce.

Elsa invece adora l’abbagliante sole mediterraneo con un rispetto e un timore quasi primitivi.  Sbrigate le poche faccende domestiche,  il suo unico passatempo è quello di sdraiarsi sulla punta della scogliera come una lucertola ad ascoltare il respiro del mare, cercando di sintonizzarlo con il suo, come se tutto il mediterraneo fosse lo smisurato polmone di un gigante. Si dice, distesa tutta sola sul limitare del promontorio: ecco, il gigante dorme, oppure: ecco, il gigante oggi è infuriato e respira come un toro prima della battaglia.

Quasi mai osa entrare nel laboratorio del marito, uno stanzone immerso in un’eterna penombra polverosa. L’odore della formaldeide le dà una nausea profonda, e ancora più forte è la pena che prova per quelle creature che invece di dissolversi dopo la morte nella pace della materia indistinta, per rinascere forse sotto altre forme, sono costrette, attraverso operazioni lunghe, minuziose e crudeli, a rimanere imprigionate per sempre nell’involucro svuotato del loro corpo, con le ali aperte in una simulazione di volo o con il collo irrigidito da  una fierezza posticcia,  in una messa in scena grottesca che offusca la dignità della morte.

Il marito di Elsa è un impagliatore rinomato. Lavora soprattutto con gli uccelli. L’isola infatti è un punto di passaggio per molte specie di volatili migratori, in autunno e in primavera il cielo si riempie di ali e di richiami.  L’uomo esce allora con un retino dal lungo manico e raccoglie gli uccelli che stremati dal viaggio si sono lasciati cadere sul promontorio, finendo sulla roccia nuda o nei cespugli spinosi dei fichi d’India.  Elsa non lo accompagna mai in queste spedizioni, si nasconde in cucina con la scusa di qualche faccenda urgente e non esce da lì fino a quando non sente la porta del laboratorio chiudersi nuovamente dietro le spalle del marito. A volte trova sul piazzale della casa tracce del dibattersi disperato dei volatili, piume sparse, penne spezzate ed escrementi espulsi dai visceri terrorizzati dei volatili. Prende la scopa e spazza via tutto con le mani che le tremano, poi corre sul promontorio a sentire respirare il suo gigante marino. Ecco, si dice, oggi il gigante è affaticato, i suoi polmoni si aprono e si chiudono ritmicamente, come il soffietto di una  fisarmonica.

Gli unici momenti di intimità con il marito sono le cene veloci e frugali che Elsa serve nel tinello al secondo piano. Non hanno mai molte cose da dirsi: lei non vuole ascoltare nulla del suo lavoro e da parte sua non può certo raccontargli del suo gigante marino che le respira attorno. Lui la guarderebbe alzando un poco le sopracciglia spesse che quasi gli nascondono gli occhi e le direbbe con il tono condiscendente che ha sempre con lei:  «Elsa, piccola mia, esci ogni tanto, vai con le altre donne al mercato settimanale del porto, oppure aiuta a preparare gli addobbi della piazza per la festa del patrono, lascia perdere i giganti!»

Quindi Elsa non gli dice mai nulla, e le loro cene si svolgono in un silenzio così profondo che si può sentire giù in basso il rumore del mare che sospinto dal vento testardamente batte e ribatte contro la roccia. Dopo cena, durante l’inverno, i due si mettono a guardare il gioco delle fiamme nel camino, seguendo ognuno i propri pensieri o la propria assenza di pensieri; nelle sere estive, invece, si sdraiano in terrazza su basse poltroncine a farsi cullare dalla brezza marina. A volte, soprattutto d’estate, il marito di Elsa si sporge verso la donna in una carezza timida e ruvida. Lei si lascia carezzare, respirando piano per calmare i battiti del cuore e vincere l’impulso di scappare. Non sopporta l’idea che quelle stesse mani che le carezzano i capelli o le guance abbiano per tutta la giornata sventrato, svuotato, esplorato visceri di uccelli, cavato gli occhi a quelle creature per sostituirli con occhi di vetro dallo sguardo eternamente fisso.

I primi tempi dopo il matrimonio si dibatteva sotto le mani ossute dell’uomo come un animale terrorizzato, si rotolava nel letto battendo la testa sulla spalliera di legno scuro, sovrastata da un crocifisso ancora più scuro al quale era appuntato un ramoscello di olivo rinsecchito, memoria di una fronda verde benedetta in una lontana domenica delle Palme, ed ora ridotto anch’esso ad un simulacro polveroso. Poi, con il passare del tempo, ha fatto l’abitudine a quelle effusioni, che del resto non sono mai state molto frequenti. Ogni volta si lascia carezzare socchiudendo gli occhi e respirando piano, come ipnotizzata dal suo stesso respiro. Attraverso la fessura delle ciglia guarda la mano ossuta e ruvida del marito che le sfiora il ventre, e pensa che dopotutto anche la sua pelle sta diventando anno dopo anno più secca, meno elastica di quando era una giovane sposa e che con il tempo i loro corpi finiranno con il somigliarsi. Il pensiero di questa somiglianza la terrorizza e insieme la affascina. É come una consolazione aspra, come il compiersi di qualcosa che è già scritto da lungo tempo. La dolcezza acre di questa consolazione le fa rilassare per un momento i muscoli, e le sue gambe si aprono al marito senza più resistenza.

Così, da un’estate ad un inverno ad un’altra estate ancora, sono passati undici anni.

Un giorno di maggio Elsa, alla quale l’aria aromatica della primavera ha messo addosso un nuovo fervore, acconsente ad uscire  per una volta dalla sua solitudine selvatica e a scendere al porto ad accompagnare il marito che parte per qualche giorno. Ci sono delle consegne da fare in continente, Elsa lo aiuta a portare fino al traghetto le scatole di cartone grigio diligentemente etichettate con il nome dell’animale che vi è contenuto. All’ultimo momento, Elsa consegna al marito un pacchetto da recapitare a una sorella che, come ha appreso in una delle poche lettere ricevute dalla famiglia da quando vive sull’isola, ha appena avuto una bambina. Elsa ha confezionato una copertina in lana rosa, decorata con il ricamo di un grande gabbiano in volo seguito da un  gabbiano più piccolo e implume.  Lei stessa, dopo il matrimonio, ha aspettato un figlio per molti anni, inutilmente. Poi ha rinunciato anche a questa attesa, convincendosi che dopotutto quella casa sul promontorio, odorosa di salino e formaldeide, non è certo il luogo adatto a  fare crescere un bambino. É un luogo di polvere morta, di oggetti morti, di resti di animali morti. Nessuna nuova vita potrebbe fiorire in quella desolazione silenziosa. Persino alcune piantine aromatiche che Elsa aveva messo sul davanzare della cucina, erano diventate gialle e poi nere in pochi giorni. come avvelenate dall’atmosfera della casa. Da allora Elsa si era accontentata di raccogliere erbette selvatiche sui viottoli rocciosi intorno alla casa, e di guardare da lontano il tripudio estivo della natura.

Una volta partito il traghetto, Elsa riattraversa il villaggio per raggiungere il sentiero tortuoso che si arrampica al promontorio. Appena  arrivata in vista della sua casa nota sul piazzale una figura diritta, che sembra aspettarla. Un po’ spaventata Elsa accelera il passo. Chi può essere? I paesani salgono raramente da queste parti.  Qui non c’è nulla, a parte la casa dell’impagliatore.  Inoltre, la sua figura incartapecorita,  l’alone di morte che circonda il suo lavoro, e l’aspetto selvatico e scontroso della moglie suscitano nel circondario un timore quasi superstizioso.

Sul piazzale Elsa trova un giovane magro e pallido, che ripara la carnagione chiara e gli occhi verdi sotto un cappello di paglia. E’ sbarcato dal traghetto, arrivato fin lì  a cercare suo marito per conto di un collezionista di cui è segretario e uomo di fiducia. Il collezionista ha saputo della bravura dell’impagliatore, della sua perizia artigianale rinomata in tutto il paese, e vuole convocarlo nella sua tenuta perché conservi per lui una volpacchiotta che aveva raccolta nel parco e tenuta con sé per molti anni. Ora che la piccola volpe è morta, non potendo rinunciare alla sua presenza, ha deciso di conservarla in una sorta di calco naturale da esibire in uno dei saloni della villa. Oltre a lui e al suo segretario adolescente, non ci sono altri esseri viventi nella grande villa circondata da un parco semiabbandonato, con corridoi smisurati nei quali ancora risuona lo zampettio  vivace della piccola volpe dal pelo lucido.

Il giovane pallido racconta tutto questo a Elsa seduto nella grande cucina  della casa, bevendo un liquore di fragole selvatiche che la donna ha distillato e poi conservato in un’ampolla di vetro. Elsa lo ascolta senza fiatare, seguendo i movimenti della mano sottile intorno al calice pieno di liquore rosso, ammirando i suoi occhi verdi che il biancore della pelle fa risaltare e il suono delicato e ritmico della sua voce, priva di quei raschiamenti e raucedini che incrinano la voce dei suoi compaesani.

Il giovane decide di aspettare il ritorno dell’impagliatore, chiede a Elsa di indicargli una locanda o pensione dove alloggiare. Ma Elsa lo fa restare con sé, lo porta nel tinello e gli prepara una cena sontuosa,  stappa  una bottiglia di vino color dell’ambra che il marito conserva da anni in cantina, spalanca  la finestra del terrazzo facendo entrare nella stanza l’aria di mare profumata di sale, scioglie per lui i capelli castani che tiene sempre legati, poi lo stringe  a sé carezzando la sua pelle chiara e odorosa come quella dei bambini.

Più tardi, quando lui si è addormentato, resta sveglia a sentirlo respirare con un soffio lieve e regolare, interrotto ogni tanto da un sospiro. Ecco, si dice, il gigante marino sospira d’amore.  Poi, la  stanchezza la prende, scivola in un sonno agitato nel quale sente sulla pelle il vento del promontorio,  il frullare d’ali di uno stormo di uccelli di passo che seguono con la determinazione dell’istinto la loro rotta. Come sono morbide le loro ali che le sfiorano passando il viso ed i capelli! Elsa alza le braccia per fermare uno di quei turbini tiepidi e piumati, agita le mani nell’aria riuscendo a toccare di sfuggita una zampa, una coda. Intravede un uccello che rallenta l’andatura, perde il  ritmo dello stormo, infine si lascia cadere sulla roccia del promontorio, atterrando con le ali aperte sulla roccia. Elsa si sporge ad afferrare l’uccello caduto, lo tiene stretto tra le mani mentre questi sussulta, con il becco aperto. Il corpo dell’uccello vibra spandendo le ultime forze dell’animale,  poi si ferma d’un colpo, afflosciandosi con la testa pendente. Elsa corre allora via dal promontorio, verso la casa, aprendo con un batticuore impaurito il laboratorio del marito, come se da lì potesse venire qualche soluzione per rianimare il volatile agonizzante.

L’odore di formaldeide e di acidi la ferma sulla soglia della stanza buia.

Elsa è veramente sulla soglia del laboratorio, ora, il sogno termina su quella stessa soglia a cui lei è arrivata senza rendersene conto, lasciando il giovane dagli occhi verdi addormentato nel letto dalla spalliera di legno scuro, tra le mani non ha la creatura in agonia raccolta sul promontorio, ma un lembo dello scialle con il quale si è riparata le spalle nude.

Spinta da una forza misteriosa,  Elsa accende una luce bassa ed avanza ancora, a piedi scalzi, verso il grande tavolo dove il marito trascorre le sue giornate. Su uno scaffale al lato del tavolo  alcuni barattoli chiusi sono pieni di liquido chiaro, in quel  liquido galleggiano esseri che una volta erano stati vivi: uccelli, rane, un castoro, un gufo, un gatto selvatico.

Elsa immagina la volpacchiotta del collezionista sigillata in un barattolo a galleggiare nel liquido conservante, gli occhietti furbi ridotti ad un’orbita cava, pronta per essere colmata con bulbi di vetro, e le viene da piangere. Però non piange: la pena per la piccola volpe si mescola alla pena per sé stessa, la pena per l’uccello moribondo del sogno, la pena per il giovane intrappolato in un palazzo enorme e freddo a riempire le giornate di un signore solitario, la pena per suo marito che ha avuto bisogno di andarsi a comprare una moglie in continente – si, ormai se ne è convinta, ha capito dopo tutti quegli anni il senso dei lunghi conciliaboli tra lui e suo padre nella cucina buia del vicolo-  per avere un essere vivente nel suo cimitero odoroso di formaldeide:  e quella stessa pena  si indurisce nel suo cuore in una crudeltà affilata e nuova, che le raggela le lacrime.

Elsa fruga con le mani tremanti tra gli strumenti ammassati sul tavolo, prende una grande siringa, la immerge nel barattolo della formaldeide tappandosi il naso per non sentirne l’odore; e scappa via in fretta e furia dal laboratorio.

Nella stanza da letto, il giovane dorme ancora, con il lenzuolo che cadendo da un lato ha scoperto una spalla chiarissima, coperta di leggere efelidi. Elsa si avvicina alla spalla, carezzando la pelle delicata della nuca e i muscoli lunghi e sodi della schiena. Il giovane nel sonno la chiama: – Lisetta , non dormi? – e per lei è la prima volta dalla fine dell’infanzia che sente qualcuno chiamarla con quel diminutivo. Poi il suo respiro riprende il ritmo del sonno. Lei lo carezza ancora, sfiorandolo appena per non svegliarlo. Sotto la nuca, al lato della colonna vertebrale, la pelle si incurva in  una fossetta morbida, nascosta in parte dai capelli ricciuti del giovane. Elsa solleva la siringa, e con la precisione di un chirurgo infila l’ago nel punto più morbido di quel corpo addormentato. Un attimo dopo, rivolge la siringa verso il suo corpo, in un incavo tiepido del braccio tra le pieghe dello scialle. Ora, occorre solo aspettare.

Nelle intermittenze della cecità che a poco a poco la prende, Elsa vede la figura guizzante di una piccola volpe saltare sul letto con uno scatto della schiena fulva, venendosi a sdraiare tra lei e il giovane immobile. Elsa allunga la mano a toccare il corpo snello della volpe, ne sente il respiro faticoso, così simile al suo. Sente soffiare nelle sue vene un vento sottile che le raffredda il sangue. La materia vivente del suo corpo sembra rapprendersi in grumi spessi, farsi di sabbia, poi di vetro. Un sorriso le tira gli zigomi lucidi di sudore gelato. L’impagliatore, al suo ritorno, avrà un bel po’ di lavoro da fare,  pensa Elsa già presa dal buio.

 

 Nuovo finale rispetto alla versione del 1994

 

“Elsa immagina la volpacchiotta del collezionista sigillata in un barattolo a galleggiare nel liquido conservante, gli occhietti furbi ridotti ad un’orbita cava, pronta per essere colmata con bulbi di vetro, e le viene da piangere. Però non piange: la pena per la piccola volpe si mescola alla pena per sé stessa, la pena per l’uccello moribondo del sogno, la pena per il giovane intrappolato in un palazzo enorme e freddo a riempire le giornate di un signore solitario, la pena per suo marito che ha avuto bisogno di andarsi a comprare una moglie in continente – si, ormai se ne è convinta, ha capito dopo tutti quegli anni il senso dei lunghi conciliaboli tra lui e suo padre nella cucina buia del vicolo-  per avere un essere vivente nel suo cimitero odoroso di formaldeide:  e quella stessa pena  si trasforma nel suo vulcano sulfureo del suo cuore in una compassione quasi dolorosa, come gli abbracci degli addii.

Elsa accende tutte le luci del laboratorio, ora sa che vuole vedere, il fuoco del cuore le si irradia negli occhi, vede i gesti tremanti dell’impagliatore, un giorno dopo l’altro, in quel cimitero in penombra, vede che l’indifferente crudeltà dell’uomo è in realtà una menomazione beffarda del destino, che poteva farlo nascere senza una gamba e l’ha privato invece delle emozioni. Vede che l’impagliatore è anche lui mummia tra le mummie, impotente a spezzare il ciclo della morte. Elsa vede, alla luce di tutte le lampade e alla luce nuova dei suoi occhi, in una sfolgorante chiarità che mai prima di allora aveva illuminato il  misterioso laboratorio, che ha il dovere di liberare se stessa e anche l’uomo che le è toccato come marito dalla fredda viscida pietra tombale di quella vita. Come una furia inizia a rovesciare provette e contenitori, mescolando liquidi velenosi che creano vapori e scintille. Un fumo spesso già invade il laboratorio, pronto a diventare fuoco, Elsa fa appena in tempo a prendere con sé alcuni barattoli pieni di uccelli natanti in formalina e a scappare dal laboratorio prima che questo divampi in un incendio vulcanico di oggetti, sostanze chimiche, polvere, piume, provette, zampe, alambicchi, becchi, occhi.

Elsa corre, corre a perdifiato, percepisce con la coda dell’occhio il giovane che si è affacciato alla finestra della stanza e la guarda assonnato, chiedendosi cosa sta facendo la donna sul promontorio e il perché di quelle fiamme. Elsa pensa che sarà facile per il ragazzo mettersi in salvo, con le sue gambe agili. Lei non può fermarsi, ora sa che per rimettere in moto la ruota della vita deve restituire al tempo ciò che è era stato sottratto con la chimica e la presunzione di bloccare la materia vivente in una materia inerte. Corre a portare i resti di esseri viventi nel fecondo abbraccio con il gigante marino, che tutto avvolge di vita e di larga perdonanza. Apre i barattoli e getta il contenuto tra le onde, lascia che la materia torni nel ciclo delle stagioni, nel ciclo infinito di nascita e morte, nell’oceano cosmico senza fine, il grido dei gabbiani che nell’alba si levano in volo le suona all’orecchio come una conferma che la vita è di nuovo intorno a lei. La materia inerte, bloccata in una stasi artificiale che non somiglia né alla vita né alla morte,  sta ora scomparendo nelle vitali acque marine e nel fuoco alchemico del laboratorio. Elsa respira forte il salino ventoso e sa che anche lei è finalmente e per sempre restituita al tempo ràpido e commovente della vita.