LENGUA DE STRIGA. Teatro delle voci
(Bertoni editore, 2024)

La partitura teatrale si presenta spontaneamente quando si tratta di trasmettere le molte voci che si accavallano intorno a un evento complesso e si dispiegano in una polifonia. La visionarietà scenica di Christine Hamp ha fatto lievitare la multi-vocalità del testo Il Precipizio in un complesso spettacolo multimediale. L’emozione di vedere il mio testo non solo messo in scena ma trasformato, distaccato da me e cresciuto come un figlio che ha ormai la sua strada, ha fatto ritornare con forza, non senza qualche lacrima sparsa in platea, la primigenia fascinazione del teatro come luogo di avventure collettive. Da lì, la decisione di riprendere il filo del discorso, ricostruendo le tappe del mio rapporto con il teatro e adunando i miei testi di teatro delle voci, le drammaturgie poetiche che lungo i decenni avevo elaborato e che erano finite mescolate a scritture di altro genere, disponendole finalmente in un cammino dotato di cuore, come deve essere ogni cammino.(Dalla quarta di copertina)

Si tratta di sette testi di “drammaturgia poetica”, scritti in un arco di tempo lungo, dagli anni ’90 al 2023: alcuni già editi in plaquette o libri collettivi, altri solo rappresentati ma non editi, altri inediti e non ancora rappresentati.

INDICE
NOTA DELL’AUTRICE

Teatro delle voci

INDICE DEI TESTI

Casa senza bambole (2023)

 Il Precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria (2020)

Il tempo del vaiolo (2002)

 Ars Fulguratoria (1996)– Lengua de striga (2002) – Irina l’idiota (2023)

un testo in cammino

Mida alla circonvallazione est (1994)

Sparizione di Giovanna (1991)

Leonora, atto quinto (1989)

VOCI IN DUE BATTUTE

 Er tantra de noartri

 Anche la voce non avrà fine

 TESTIMONIANZE

Enrico Frattaroli

Christine Hamp

Lorenzo Mango

Plinio Perilli

In copertina: opera di Enrico Frattaroli  per l’allestimento scenico di Lengua de striga, RomaPoesia 2002

https://www.enricofrattaroli.eu/ARS_VISIVA/PERTURBAZIONI/lenguadestriga.html

NOTE DI LETTURA SUL VOLUME in ordine di pubblicazione

Marco Colletti, poeta e letterato, testo inviato per la presentazione del 24 marzo 2024 al PENTATONIC, Roma)

Anna Maria Curci, autrice, traduttrice e critica letteraria (sul blog LETTERE MIGRANTI 25 marzo 2024)

Mary Poltroni, attrice e autrice, intervista durante il Salone del Libro di Torino, 12 maggio 2024

Isabella Bignozzi (poeta e saggista, nota di lettura su ASTERO ROSSO 20 maggio 2024)

Marco Palladini (scrittore e giornalista, lettera)

Stefania Di Lino poeta e artista, nota di lettura pubblicata, su ATTI DI POESIA IL 9 LUGLIO 2024

TESTI:

Marco Colletti, poeta e letterato (in occasione della presentazione del 24 marzo 2024 al PENTATONIC, Roma)

Ho conosciuto Tiziana ai tempi dell’Università e abbiamo seguito insieme per tre anni i corsi di Letterature Comparate del prof. Armado Gnisci, amato, odiato, a volte entrambi. Era una ragazza spigolosa e assolutamente singolare, tirava fuori dal suo cilindro autori mai sentiti (e questo era abbastanza normale nell’ambito della comparatistica), ma ciò che la rendeva unica era il suo modo di collegarli in modo all’epoca azzardato e affascinante. Ciò che quegli anni di studi ‘matti e disperatissimi’ hanno impresso in tutti noi e in particolare in lei è stato un metodo, critico e di scrittura creativa, di estensione spaziale, orizzontale e globale ( oggi la globalizzazione della letteratura è scontata, ma all’epoca affatto ed era un concetto spesso inviso a molti storiografi), ma anche verticale, di approfondimento ermeneutico delle viscere di ogni testo, per accedere al magma pulsante celato sotto la crosta della lettura apparente ai più. ‘Lengua de striga’ è una raccolta di testi che si nutre di questo metodo ormai interiorizzato e inconscio, nell’abbraccio tra fatti di cronaca e dolori ancestrali, una sofferente quotidianità che si fa mito ed epos, ma nuovi e attuali. Tiziana raccoglie a sé in questi testi tutte le sue muse, dal canto lirico alla tragedia, passando per la storia e la coralità, in un’opera totale che crea un nuovo modello di sintesi delle arti. In questo senso Tiziana si fa vestale di Mnemosine, se non dea ella stessa nell’ imporre il ricordo di tutto ciò che la nostra società vorrebbe gettare nel Lete e nel suo oblio. Ci obbliga a tenere i nostri occhi spalancati di fronte a ciò che molti preferirebbero non vedere o sentire sulla propria pelle, ci obbliga alla Verità.

Anna Maria Curci, autrice, traduttrice e critica letteraria (sul blog LETTERE MIGRANTI 25 marzo 2024)

Tiziana Colusso, Lengua de striga (nota di Anna Maria Curci)

Intervista a Tiziana Colusso di Mary Poltroni su LENGUA DE STRIGA (Bertoni 2024) Salone del Libro di Torino 12 maggio 2024

Marco Palladini

«Ciao Tiziana, ho finalmente trovato il tempo per leggere il tuo libro, interessante perché agli antipodi della drammaturgia convenzionale e di impronta psicologica. Un teatro delle voci, come lo chiami, antinaturalistico e di evidente matrice letteraria, non di rado basato su forme di riscrittura e di remix mitopoietico. Mi sembra che abbia ragione Lorenzo Mango quando dice che, al di là di possibili letture/reading in teatro, questi testi per essere allestiti hanno la necessità di regie alquanto creative, fondate su scritture sceniche parallele, esplicate in risonanza o, magari, persino in opposizione con le parole. Il problema, annoso, è che il teatro scritto in questo paese raramente trova significativi sbocchi produttivi. Persino uno come Stefano Massini fa ormai il comunicatore in tivù, e una come la Calamaro si mette in scena da sola. C’è, peraltro, in Italia tantissimo teatro scritto anche da scrittori eccellenti che non ha mai trovato una destinazione scenica. Questo, purtroppo, è lo stato dell’arte.  A’ bientôt, m.»

 

Stefania Di Lino nota di lettura pubblicata su ATTI DI POESIA IL 9 LUGLIO 2024

La scrittura di Tiziana Colusso è una scrittura politica, pervasa e sostenuta, da un profondo senso civile e umano, a riconferma, e forse deluderò qualcuno, che l’atto della scrittura è e rimane un atto profondamente politico.

Susan Sontag afferma che ogni atto del vivere, ogni parola detta e scritta, sono atti politici, perché la politica non è certo chiudersi in una cabina ogni 4 anni, ammesso che il governo in vigore lo permetta, ed esprimersi all’interno di un recinto chiuso con una finta scelta in un range già preconfezionato dai padroni del vapore,  cioè da chi detiene il potere economico ed è in grado d’influenzare e determinare l’andamento politico di un paese.

Inoltre, se è vero quel che dice David Foster Wallace, e cioè che nulla di diretto può essere davvero detto nella scrittura, questo può significare anche che l’atto dello scrivere è pur sempre un atto autobiografico, cioè una confessione che cerca “assoluzione” (Umberto Saba).

Fatta tale premessa, la scrittura si fissa a un indiscusso valore di autenticità da cui non si può prescindere, pena la perdita di aderenza e di aggrappaggio al vissuto umano, quindi di una esposizione al rischio di una sostanziale nullità dell’atto dello scrivere. Quindi si può ben capire cosa intenda Tony Servillo quando afferma che “ il teatro deve far male”, deve penetrare, scuotere, cambiare, deve rivelare e condurre, anche dolorosamente, a nuovi livelli percettivi, della realtà e di sé.  La scrittura, al pari del teatro e dell’arte più in generale,  che non siano intesi come puro intrattenimento, come divertissement, come prodotto soporifero per artefatte e presunte esigenze di mercato,  deve risvegliare coscienze e contribuire alla crescita e all’evoluzione degli esseri umani. E questa potrebbe essere una risposta al perché, nel nostro paese, di fatto si è condannata a morte sia l’arte che gli artisti.

E la scrittura drammaturgica di Tiziana Colusso,  in tal senso, fa davvero male perché costringe, in qualche modo ad assistere alla genesi del Male, e ai danni prodotti, alla sua mediocrità agita che emargina, dileggia, tortura, uccide; mediocrità intesa come abisso spirituale, che non è solo di chi il male lo compie, lo esercita, lo infligge, ma dell’intero consorzio umano che ruota intorno a determinati personaggi (vedi i fatti del Circeo raccontati in Precipizio, e Irina l’idiota_ Una pietra in gola), e che giustifica, alimenta la violenza, la occulta e quindi la sostiene, arrivando a difendere, e persino ad assolvere, chi concretizza il male ai danni dell’integrità altrui.

Ma chi sono questi “altri” a cui si crede di poter fare impunemente del male? Non sono certo i forti, i potenti, i ricchi, su cui si può infierire sadicamente, no! Sono coloro ritenuti a vario titolo, in un’ottica ferocemente gerarchica, fragili, inferiori, “ carne di scarto”, dice Colusso, o da cannone, in quanto poveri, prima di tutto, in quanto donne – in questa società le donne sono quasi sempre più povere degli uomini, quindi carne da macello due volte – oppure perché “diversi” nel colore della pelle, o perché portatori di qualche visibile e manifesta fragilità, secondo una dinamica tutta agita sia all’interno di determinate famiglie come in piccole comunità tribali, arcaiche, chiuse, ben conosciuto dagli studiosi come il fenomeno del “capro espiatorio”, contro cui si galvanizza e si proietta compulsivamente, periodicamente e con sadica ferocia, il Male che appartiene all’intera comunità.

Ritengo che sia proprio questa scrittura che ci inchioda lo sguardo sul “non visto”, sul “ non inteso”, sul “non percepito”, ovvero sul rimosso individuale e sociale. Solo una scrittura che assume su di sé la responsabilità e il coraggio della parola dal forte richiamo etico, ci può (forse) sollevare dal pantano morale e culturale in cui l’Occidente sta affogando.

Josip Osti, poeta di una Sarajevo sotto le bombe umanitarie (o almeno così definite dal nostrano politico Massimo D’Alema), afferma che la poesia deve avere lo stesso andamento della vita.  La scrittura di Tiziana Colusso ci mette al riparo da edulcorati noiosi inattuali esercizi calligrafici, e ci immette invece in una parola di grande forza germinativa, capace di essere/ esserci (storicamente) nel suo presente. Si tratta di una scrittura fluviale, torrentizia, eppure tersa, cristallina, a tratti fredda, inevitabilmente chirurgica, per meglio descrivere gli attraversamenti umani negli orrori che altri umani sono capaci di perpetrare ai danni dei loro simili. Si tratta quindi di una parola presente, quindi una parola testimonianza, radente e fedele a fatti avvenuti, scritta e detta dopo sopralluoghi degni di un certo giornalismo d’indagine, come nel caso dei terribili accadimenti del Circeo in cui perse la vita Rosaria Lopez e  a stento sopravvisse Donatella Colasanti.

Una scrittura attenta e sensibile, dunque, non solo alle storie “private” (seppure dovremmo aver appurato che il privato è sempre politico), ma anche alla contestualizzazione fenomenica sociale, oltre che letteraria: come per esempio, nel caso del racconto intitolato Casa senza bambole in cui il pensiero corre alla Nora del norvegese Henrik Ibsen, di Casa di bambola, dramma ambientato in epoca vittoriana in cui viene descritto il tragico crollo del sogno borghese di Nora, cioè il naufragio del suo “matrimonio perfetto”.

Nel racconto di Tiziana, contestualizzato nel contemporaneo, perciò attualissimo, si descrive il parossismo di amore tossico, ovvero di ciò che erroneamente viene scambiato per amore, ma che amore non è, di una coppia in cui l’uomo è affetto da un’evidente pericolosa patologia narcisistica.  Il rapporto violento, anche sessualmente, viene consumato in una stanza sporca che connota visibilmente la malattia dell’uomo e in cui la donna è costretta a vivere in uno stato di segregazione. Ma al contrario del dramma di Ibsen, la parte conclusiva del racconto pare alluda ad una risoluzione positiva in cui la donna, riesce finalmente a liberarsi.

In questa sua scrittura drammaturgica e umanissima, Tiziana è visibilmente dalla parte delle vittime – ma come potrebbe essere il contrario? – vittime che sono prevalentemente donne, come nella vita reale, in una società culturalmente fondata sulle gerarchie economiche, quindi di classe, che genera endemicamente disparità, diseguaglianza, ingiustizia, creando divari sempre più incolmabili; una società che genera soprusi abusi violenze contro coloro che si ritengono indifesi, più deboli, inferiori, quindi facile bersaglio di emarginazione e bullismo. Coloro che presentano una diversità, una devianza secondo uno standard comunemente vissuto come unità di misura in cui calibrare gli esseri umani, che sia un’imperfezione fisica e/o mentale, una tara, si sarebbe detto ai tempi dell’efferato  Josep Mengele, che può coincidere con una fragilità economica, come nel caso di Irina l’idiota, una pietra nella gola.

Malgrado questo Tiziana Colusso nella sua scrittura, come nella sua militanza civile,  non esenta le vittime donne dalle loro eventuali responsabilità, anche solo di ingenuità, o di poca accortezza, Puelle, non sapete leggere i segni!, fa dire in Precipizio alla Maga Circe, che in quanto Mito, e sempre attualissima.

Ma di quali segni si parla? e di quale avvedutezza, se quei segni terribili vengono rimossi, messi a tacere, o addirittura interpretati, a causa di una stortura del codice primigenio, per interesse o, addirittura, per amore? Ed è  proprio nella confusione, nella mancanza, nella carenza d’affetto, nel vuoto d’amore, che trova nutrimento la predazione, il sopruso, l’abuso, la violenza, soprattutto in un periodo culturale come il nostro, in cui il padre – principio maschile che ci apre al mondo, ma che insegna anche i limiti –  il padre “evaporato” come per l’appunto lo descrive Massimo Recalcati,  ha abdicato al suo ruolo, per motivi che storicamente potremmo anche individuare, ma che nulla toglie alle responsabilità di ognuno.

Tiziana Colusso, in riferimento all’atroce episodio in cui la madre di Ghira, tenta, senza riuscirci, di cancellare gli schizzi di sangue sul pavimento e sulle pareti, ai fini di proteggere il figlio, usa i versi della Ballata delle madri, poesia civile di Pier Paolo Pasolini:

<< Mi domando che madri avete avuto? Madri feroci, intente a difendere / quel poco che, borghesi, possiedono, / la normalità e lo stipendio, / quasi con rabbia di chi si vendichi ( o sia stretto da un assurdo assedio / Madri feroci, che vi hanno detto: / Sopravvivete! Pensate a voi / Non mai pietà o rispetto / per nessuno…>>

E in tutto questo, chiedo io, i padri che fine hanno fatto?

Se per Casa senza bambole, come dicevo, emergono forti echi e fantasmi della drammaturgia del Nord Europa, in Irina l’idiota – testo già segnalato alla 36ma edizione del Premio Montano, i rimandi evocati appartengono alla grande indimenticata letteratura russa.

Per Dostoevskij l’Idiota è il Principe  Lev Nikolaevič Myškin, protagonista del suo romanzo, uomo in realtà estremamente intelligente e profondamente buono, (da qui la definizione d’idiota), che porta su di sé “la tara” di un’imperfezione, ovvero i segni di una malattia molto particolare come l’epilessia, di cui pare soffrisse lo stesso autore. Su tale figura lo scrittore fa convergere una dimensione sacrificale, mistica, anzi più espressamente cristologica in quanto è lo stesso Dostoevskij a citare nel romanzo l’intensa opera del pittore Hans Holbein il Giovane IL CORPO DI CRISTO SULLA TOMBA (1521).

Non lontana da questa visione, Tiziana Colusso fa della sofferenza della carne offesa oltraggiata e straziata, un passo fondamentale, un passaggio alchemico nella trasformazione di status della materia stessa, definendo “santa” Irina l’idiota, ( e come non pensare alla cattolicissima Santa Maria Goretti?), pur attualizzando tale nei riverberi ideologici di stampo femminista del nostro tempo, ma che ben si lega anche con certa iconografia etrusca, a cui si aggiunge, rispetto al romanzo russo, una dimensione magico- sciamanica, espresso sopratutto nel timore e nella soggezione di una nemesi da parte della comunità che pure ha giustificato e difeso i torturatori d’Irina, diventata ormai “immobile e solenne”, trasformata in una sorta di Medusa dallo sguardo maledicente, fulminante, proprio come giusta punizione, come contrappasso alla violenza commessa.

Irina l’idiota, dopo l’oltraggio, diventa una dea arcaica, una divinità di pietra scolpita dai venti, perfettamente inserita nel simbolismo del luogo (un cimitero) e nella morfologia marina del paesaggio, un Genius Loci da rabbonire e a cui portare doni per placarne l’ira funesta.  Infatti, a chiusura del racconto, l’autrice fa dire alle voci del coro: “ Con quei doni le donne chiedono alla santa idiota di placare il vento che scuote le barche dei nostri figli, di dominare la furia dei fulmini vendicatori, di conservare la pace ai vivi e ai morti”.

Per quanto riguarda la vera definizione del termine “idiota”, a me piace riportare il seguente stralcio tratto da  Idioti a Parigi alla scuola di G.I. Gurdjieff diari 1949 di John G. ed Elizabeth Bennett, libro scritto pochi mesi prima della morte di Gurdjieff stesso (scrittore filosofo mistico caro a Franco Battiato) e al suo insegnamento sulla Scienza dell’idiozia:

<<La parola idiota ha due significati: il significato vero che le fu attribuito dagli antichi saggi era “essere se stessi”. Un uomo che è se stesso sembra e si comporta come un matto per coloro che vivono nel mondo delle illusioni: sicché quando chiamano idiota un uomo, intendono dire che egli non condivide le loro illusioni.

Chiunque decida di lavorare su se stesso è un idiota in entrambi i sensi. I saggi sanno che egli è in cerca della realtà. I pazzi ritengono che abbia perduto il ben dell’intelletto. Si suppone che noi che siamo qui siamo in cerca della realtà e, così, saremmo tutti idioti: ma nessuno ti può far diventare idiota. Devi decidere da te.>>